Il rispetto non si chiede, si sceglie
- Nicola Arnese
- 14 lug
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 19 lug

C’è una verità che si fa fatica ad accettare, ma è lì, come la polvere sotto il tappeto: non tutti ci rispetteranno. Qualcuno lo farà per distrazione, qualcuno per abitudine, altri proprio perché non sanno cosa significhi farlo. E allora cominciamo a chiederci se è colpa nostra, se abbiamo fatto qualcosa di sbagliato, se forse siamo stati troppo disponibili, troppo gentili, troppo qualcosa.
Ma il punto non è quello. Il punto è che il rispetto non è qualcosa che possiamo elemosinare. È una forma di sguardo che scegliamo prima su noi stessi, e poi sugli altri. E quando manca, non si tratta di gridare per ottenerlo, ma di decidere se vale la pena restare dove ci viene negato.
Spesso la prima reazione è rispondere a tono. Difendersi. Far valere le proprie ragioni. E per carità, è umano. Ma qui entra in gioco una scelta più sottile, più difficile: restare fedeli a sé stessi anche quando l’altro ci sfida a diventare qualcun altro. Perché ogni volta che rispondiamo colpo su colpo, perdiamo qualcosa di nostro per assomigliare a chi ci ha feriti. E quel genere di somiglianza, alla lunga, stanca.
C’è una stanchezza, infatti, che non si cura col sonno: è la stanchezza di dover spiegare ogni volta chi siamo a chi non ha voglia di capirlo. Allora impari che certe battaglie si vincono non combattendole. Che la forza non è alzare la voce, ma sapere quando è il momento di fare silenzio e voltarsi altrove.
In questo cammino, i confini diventano indispensabili. Non per escludere, ma per non perderci. Un confine non è un muro, è una linea che dice: “Qui finisco io, lì cominci tu”. Serve a non farsi invadere, ma anche a non invadere. Serve a tenere in ordine le emozioni, come si fa con i cassetti: se non chiudi, tutto si mescola.
E poi c’è quella trappola sottile: pensare che capire l’altro significhi giustificarlo. L’empatia è una cosa preziosa, ma senza discernimento diventa un boomerang. Perché se capisco tutto e tollero tutto, finisco per smarrirmi in chiunque senza più riconoscermi in nessuno. L’amore vero, verso gli altri e verso se stessi, ha bisogno di contorni. Non tutto è perdonabile, non tutto è salvabile, e soprattutto: non tutto è nostro da sistemare.
Ci sono momenti in cui l’unica scelta sensata è andarsene con grazia. Senza strilli, senza chiudere porte sbattendole, ma con quel passo leggero di chi ha capito che non può farsi capire da chi non ascolta. Lasciare non è un fallimento, è una dichiarazione d’indipendenza. Non è un grido, è un sussurro che dice: “Io merito di più”. Anche se nessuno lo applaude, anche se nessuno se ne accorge subito.
E poi, col tempo, succede una cosa curiosa. Gli altri, quelli che ci avevano dato per scontati, cominciano a percepire il vuoto lasciato. E noi, in quel vuoto, cominciamo finalmente a respirare. Perché il rispetto, quando non lo ottieni, non lo insegui. Ti fermi. Ti ascolti. E scegli di offrirlo a te stesso, prima di tutto.
E forse è proprio questa la forma più alta di leadership: non avere bisogno di dominare, ma solo di restare interi. Non trascinare gli altri verso la tua dignità, ma restarci dentro con calma, anche se sei da solo.
Non tutto ciò che riceviamo dagli altri merita di essere trattenuto. A volte il vero rispetto comincia quando impariamo a non restare dove ci sentiamo invisibili.
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