Non serve vincere l’ultima gara. Serve sapere perché stai correndo.
- Nicola Arnese
- 12 mag
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 13 mag

Quando Alain Prost corse la sua ultima gara in Formula 1 era il 1993. Aveva già vinto quattro mondiali, affrontato avversari feroci, piogge infinite, strategie disastrose e pure Ayrton Senna. Aveva già dato tutto, almeno in apparenza.
E invece no.
Anche in quell’ultima gara, diede tutto. Non arrivò primo. Arrivò secondo. Ma chi aveva l’occhio allenato, lo capiva subito: stava ancora cercando la curva perfetta. Ancora aggiustava. Ancora ascoltava la macchina. E forse anche se stesso.
Faceva quello che aveva sempre fatto: non correva per battere gli altri. Correva per diventare migliore.
Molti ricordano le coppe, le pole position, le scintille con Senna. Ma io, se devo essere sincero, ricordo quel secondo posto. Perché racconta qualcosa che ci riguarda da vicino: puoi essere quasi alla fine... e stare ancora imparando.
In fondo, chi lo dice a che punto siamo? Non c’è classifica nella vita. Nessuno ti dice: “sei quinto, sei settantaduesimo”. Non ci sono medaglie a fine giornata, né cronometri che ti dicono se stai andando forte o piano.
C’è solo il tuo volante. Le tue mani. La tua traiettoria.
E sei tu che spingi sull’acceleratore.
Con attenzione. Con rispetto. Guardando avanti, non nello specchietto.Perché se ti distrai, finisci fuori pista. Ma se resti presente, senti che stai andando da qualche parte. Anche se non sai esattamente dove.
Quelli che vincono davvero non sempre salgono sul podio. Ma hanno qualcosa dentro. Una direzione. Un perché.
Perché, almeno da dove la vedo io, la vittoria non è una causa. È un effetto. Non arriva per magia. Arriva perché prima l’hai sognata, poi ci hai creduto, e poi, e questo è il pezzo che piace a pochi, ci hai lavorato, curva dopo curva, chilometro dopo chilometro.
Come Prost. E come tanti altri che la gente non conosce, ma che stanno lì, a costruire in silenzio.
E non serve mica una macchina da corsa per capire tutto questo.
Ogni volta che cambiamo lavoro, che lanciamo qualcosa di nostro, che decidiamo di ripartire, siamo in pista.
Ogni volta che scegliamo di crescere, di non fare finta di niente, di cambiare strada, siamo in piena gara.
Ma non è una gara contro gli altri. È una gara contro la paura. Contro quella vocina che ti chiede: “Ma ne vale davvero la pena?”. È una corsa piena di deviazioni, tentativi, errori. E anche ripartenze.
Però, ogni tanto, capita una curva perfetta. Un tratto liscio. Un momento in cui tutto torna. E anche se nessuno lo nota, tu sì. Tu lo senti. E tanto basta.
Nessuno ti applaude. Nessuna medaglia. Ma ti fermi un attimo, respiri... e capisci che sei sulla strada giusta. Come Prost. Lui lo sapeva, anche senza vincere.
Ecco perché penso che bisogna credere prima ancora di vedere.Immaginare prima ancora che ci sia qualcosa.Prendere le curve senza cercare scorciatoie.
Continuare anche quando non ti guarda nessuno.Tenere gli occhi su chi vuoi diventare, non su chi hai accanto.
Alla fine, se hai vinto o no l’ultima gara, chi lo sa. E forse nemmeno importa.
Quello che conta davvero è come hai corso.Quanta anima ci hai messo.Quanto sei rimasto fedele a ciò che volevi costruire.
E allora la domanda vera non è: “Hai vinto?”
Ma piuttosto:Hai corso per dimostrare qualcosa… o per diventare qualcuno?