Non sei indispensabile: ed è una gran bella notizia
- Nicola Arnese
- 24 mag
- Tempo di lettura: 3 min

C’è un fenomeno curioso che si ripete in molti uffici, open space, sale riunioni e persino cucine aziendali. Quando arriva il momento di affrontare qualcosa di difficile, tutti si fanno di lato. Si guardano le scarpe, si aprono mail fittizie, si sorseggia un caffè già freddo.
E poi c’è lui: il manager-bidone.
Quello che, pur di non creare problemi, si carica tutto sulle spalle. O peggio, quello che non si fida a lasciare certe responsabilità agli altri, come se il mondo potesse esplodere da un momento all’altro.
Capita spesso a chi ha un forte senso del dovere. Gente capace, generosa, pure un po’ perfezionista. Si convincono che il compito difficile sia una specie di test divino: “Se lo faccio io, almeno so che viene fatto bene.” Così però succede una cosa strana: mentre loro si consumano in mille task impossibili, il team resta a guardare. E impara una sola cosa: che le sfide vere non toccano a loro.
Ora, lo confesso: io stesso, per anni, ho coltivato questa nobile arte del trattenere. Un po’ per senso del dovere, un po’ per paura, un po’ per quella forma sottile di vanità che ci fa credere che senza di noi certe cose non potrebbero funzionare.
E in effetti è vero: senza di noi, quelle cose non funzionano. Ma non perché siano troppo difficili. Solo perché non lasciamo mai che qualcun altro impari a farle.
Ho visto persone trasformarsi completamente quando hanno ricevuto in mano un compito “troppo grande per loro”. Gente che fino al giorno prima prendeva appunti in silenzio durante le riunioni, e poi, d’improvviso, iniziava a prendere la parola, a proporre, a decidere.
Naturalmente, la prima volta fa paura. A entrambi. A chi delega e a chi riceve. Il delegante ha l’ansia da prestazione passiva: sta lì, si morde le unghie, controlla ogni dieci minuti se ci sono aggiornamenti. Il delegato, invece, si sente come se avesse appena accettato di pilotare un Boeing dopo aver fatto scuola guida su una Panda del ’98. Ma poi succede qualcosa di magico: il volo decolla. Magari con un po’ di turbolenza, ma decolla.
Il punto è che delegare non è un favore che si fa a se stessi per risparmiarsi la fatica. È un regalo che si fa agli altri. E intanto, impariamo che non siamo i soli capaci. Che non abbiamo il monopolio della competenza. E che forse, forse, non essere indispensabili è una liberazione.
Non serve fare grandi discorsi motivazionali. Basta scegliere un compito che oggi ti sembra troppo importante per affidarlo a qualcun altro. Proprio quello. Sì, quello che ti fa venire il mal di stomaco solo all’idea che venga gestito male. Prendilo, impacchettalo bene, spiega chiaramente cosa conta davvero. E poi fai un passo indietro.
Se la persona sbaglia, non è la fine del mondo. È solo un segnale: hai ancora margine per allenarla meglio. Ma se invece ce la fa, hai fatto bingo. Hai creato un nuovo riferimento. E magari, la prossima volta, sarà lei a delegare qualcosa a qualcun altro.
A volte, il vero vero atto di leadership non è buttarsi nella mischia. È lasciare che qualcun altro lo faccia. E restare lì, pronto a intervenire se serve, ma senza rubare la scena.
Delegare non è perdere controllo, ma creare spazio. Spazio perché altri possano mettersi alla prova, sbagliare, imparare e crescere. È un atto di fiducia concreta, che libera energie e responsabilità. E mentre gli altri crescono, anche noi cambiamo sguardo: da esecutori a facilitatori, da accentratori a coltivatori di leadership. Se ti stai chiedendo da dove cominciare, prova con un compito. Uno solo, ma vero. Poi osserva che succede.
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