Quel fastidioso rumore della bugia che si finge verità
- Nicola Arnese
- 1 mag
- Tempo di lettura: 3 min

C’è stato un tempo in cui pensavo che una mezza verità fosse comunque meglio di una bugia. Una posizione, tutto sommato, rassicurante: se la verità vale cento e la bugia zero, una mezza verità dovrebbe pur valere almeno cinquanta.
Poi però capisci che non funziona proprio così.
Una volta, durante una riunione importante, un collega presentò dei dati scelti con una certa cura. Nessuna falsificazione, sia chiaro: erano tutti corretti. Solo che erano stati selezionati. Mostravano ciò che faceva comodo vedere. E per un po’ la cosa passò liscia.
Fino a quando, mesi dopo, emersero anche gli altri numeri, quelli più scomodi. Da lì in poi, non fu solo quel collega a perdere credibilità, ma tutto il sistema di informazione interna. La fiducia, quando si rompe, fa un rumore sordo ma inconfondibile.
La bugia, una volta scoperta, ha confini precisi. La riconosci, la condanni, la metti a fuoco. È un gesto sbagliato, ma almeno ha un nome.
La mezza verità, invece, confonde. Si insinua nelle pieghe della comunicazione, distorce il senso, contamina anche ciò che era sincero. Ti lascia con una domanda che si ripresenta sempre uguale: “E allora, che altro mi stai nascondendo?”
I greci, che in certe cose erano maestri, la chiamavano akrasia: la debolezza che ti porta a fare il contrario di ciò che sai essere giusto. Chi racconta una mezza verità, spesso non è un bugiardo. È uno che sa bene cosa dovrebbe dire, ma non trova il coraggio. E allora smussa, taglia, aggiusta. E nel farlo, senza volerlo, semina sfiducia.
All’inizio sembra niente. Un dettaglio omesso, una piccola correzione. Ma poi ci si abitua. Si prende il vizio di raccontare solo quello che conviene. E così, piano piano, si scivola in un’abitudine selettiva che corrode le relazioni, personali o professionali che siano.
Nelle aziende, questa abitudine può diventare cultura. I successi vengono messi in vetrina, i problemi chiusi nei cassetti. E si finisce per lavorare con una visione distorta della realtà. Nessuno ha più il quadro completo, nemmeno chi prende le decisioni. Si costruisce sull’apparenza, e quando tutto crolla si cerca un colpevole fuori.
Paradossalmente, tutto questo parte quasi sempre da una buona intenzione. “Se dico tutta la verità, rischio di perdere fiducia”, si pensa. Ma è proprio lì che l’inganno si rivela: perché la fiducia non si difende omettendo, si costruisce dicendo. Non tutto, ma il vero.
Essere trasparenti non vuol dire dire tutto sempre. Significa essere onesti su ciò che si può e non si può dire. A volte basta una frase semplice: “Non ho ancora tutte le informazioni”. Meglio questa, che un racconto monco che finge completezza.
Osservo spesso che i team più solidi sono quelli dove si può parlare con franchezza anche quando le cose non vanno. Dove dire “non so” non è una debolezza. Dove sbagliare non significa finire sotto processo.
Ma per arrivarci serve coraggio. Soprattutto da parte di chi guida. Il coraggio di lasciare spazio al dubbio, di non avere sempre la risposta pronta, di dire la verità anche quando fa tremare un po’ la voce. È lì che nasce una cultura in cui la verità può respirare.
Forse la trasparenza perfetta non esiste. Ma possiamo scegliere l’integrità. Che non vuol dire dire tutto. Vuol dire far coincidere, per quanto ci riesce, ciò che pensiamo, ciò che diciamo e ciò che facciamo.
E poi, a ben vedere, la verità ha un vantaggio non da poco: una volta detta, non c’è più bisogno di ricordarsi quale fosse la versione che avevamo raccontato prima.
Essere trasparenti non significa raccontare tutto, ma dire il vero nel modo più onesto possibile. Prova a osservare, nei prossimi giorni, che effetto fa una comunicazione chiara anche nei suoi limiti. Scoprirai che la fiducia cresce proprio lì.
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